IL CASTELLO Dopo che Berengario I nel 915 concede al vescovo di Padova Sibicone di provvedere alla difesa della sua chiesa, ovunque fosse necessario, con l’edificazione di un castello con mura, merli, fossati, bertesche e celate, già nel 950 le fonti scritte testimoniano della presenza di un castro patavino e di un secondo castello, identificabile con quello del duomo. Nel 1062 un documento nomina la Turlonga, posta alla biforcazione dei corsi d’acqua che circondano la città. Nel Liber Regiminum Padue all’anno 1242, dopo le prodezze distruttive di Ezzelino III da Romano (in marzo l’incendio e l’occupazione di Montagnana; in settembre la devastazione di Este, l’incendio del borgo di Baone e la distruzione della torre di Cinto), è annotato l’inizio del castello di S. Tommaso a Padova. Con più precisione Rolandino scrive nella sua Cronica che “in quello stesso anno [1242], nel mese di agosto, fu iniziato il castello, che Ezzelino fece fare a Padova attorno alla chiesa di S. Tommaso, circondando e chiudendo la chiesa nel castello”. Tuttavia i padovani, almeno “quelli che desiderano equità e giustizia”, non lo intendono come fatto positivo, temendo che il castello diventi non uno strumento di protezione ma un ulteriore dispositivo di oppressione e di terrore. Ma vi sono anche quelli che “si gloriavano del male che andava crescendo e provavano un’indicibile esultanza, accecati tanto da un’ambizione insaziabile ed iniqua quanto dal timore del tiranno”. E qui Rolandino, per esemplificare, si sofferma a raccontare di “un tale che chiese con insistenza ad Ezzelino la grazia di fargli progettare non la disposizione delle camere del palazzo del castello, ma del carcere e della stanza delle torture. Accogliendo la grazia concessagli con animo lieto, costui sollecitò l’acume di tutto il suo zelo e di tutto il suo ingegno e come artefice sovrintese agli operai zelante, assiduo e digiuno per più giorni, per concludere con successo quel che aveva concepito nell’animo. Ma si rallegrino le anime dei morti nel castello! Poiché colui che tanto spesso era entrato di sua spontanea volontà nel carcere, quando veniva costruito, osservando attentamente, anzi ordinando, che nel carcere non rilucesse alcuno spiraglio di luce – volendo fare un luogo tenebroso, pieno di porcherie e immondizie, triste, tartareo, orribile e mortale – proprio quell’artefice stesso, in seguito preso e rinchiuso per ordine di Ezzelino, oppresso da fame, sete, vermi e fetore e dalla mancanza d’aria, come un lupo che ulula, perì miserevolmente e venne meno nel luogo così infernale che aveva preparato. Egli, a mio avviso, fu simile a quel buffone che, desiderando compiacere il suo re e signore, che gli chiedeva una tortura di genere inusitato, fece fabbricare un toro di bronzo, in cui escogitò di chiudere i colpevoli di modo che, posto intorno e acceso il fuoco, il re sentisse il toro miserevolmente muggire. Ma il re, in ciò veramente giusto e degno di memoria, volle che il buffone, ossia l’artefice, fosse il primo che in tale modo muggisse in tale bestia. Così chi macchinava per gli altri una cosa peggiore della morte, patì a sua volta una cosa peggiore della morte. E così è chiaro che era giusto per l’artefice tanto del carcere quanto del toro non soltanto contemplare ciò che aveva davanti agli occhi. D’altra parte la loro prudenza avrebbe dovuto considerare attentamente come sarebbero andate a finire le cose”. Rolandino non nomina il progettista del carcere, che secondo Pietro Gerardo – fonte cinquecentesca di dubbia attendibilità – sarebbe stato l’architetto milanese Zilio. Secondo la prudente analisi dei testi condotta da Aldo Settia, non è accertata la coincidenza del sito della Torlonga col luogo del castello fatto costruire da Ezzelino. Tuttavia, se ricerche archeologiche sull’attuale torre della Specola non sono ancora state compiute, le analisi stratigrafiche condotte alla base della porta occidentale del castello hanno già fornito alcune prove importanti della permanenza nello stesso sito di imponenti fortificazioni romane e di un dongione altomedievale con torre e recinto sui due lati verso città. A questa robusta struttura, senza sostituirsi ad essa, si attestano verso est e verso nord le mura di epoca comunale. Segue l’intervento ezzeliniano, del quale però sono finora confermati solo i resti della porta verso ovest. Nel secolo successivo avvengono le trasformazioni più significative. Dovrebbero essere di epoca carrarese, infatti, alcune delle principali strutture del castello giunte fino ad oggi. Il cronista padovano Galeazzo Gatari (1344-1405) iscritto alla fraglia degli speziali con bottega nella contrada di Santa Lucia, ma anche autorevole ambasciatore e tesoriere di Francesco il Vecchio, signore di Padova, nella Cronaca carrarese trascritta dal figlio Bartolomeo, alla data del 9 maggio 1374 riporta l’edificazione del castello di Padova con queste parole: “Marti, dì 9 de mazo, col nome di l’altisimo Dio e di santo Prosdocimo, san Danielle, santo Antonio, santa Iustina, protetori di questa cità di Padoa, dita una solenne messa, fu principiato il castello dila cità di Padoa, che da san Tomaxo è apresso la tore de misser Ecelin; ala quale edificacione fu a farllo il provido omo maestro Nicollò da la Belanda, ingegnero dil prefato signore, e in questo dì promesse di darllo conpido d’ogni raxone fortificò perfino a 4 anni prosimi futuri, non gli mancando le cose oportune per quello”. La torre di Ezzelino che viene citata è forse quella maggiore, cioè la vecchia Torlonga probabilmente ristrutturata. Ma la versione della cronaca trascritta e rivista successivamente dall’altro figlio di Galeazzo, Andrea Gatari, è diversa da quella del fratello in un punto cruciale, dato che attribuisce ad Ezzelino la paternità di entrambe le torri del castello: “Dubitando il signore messer Francesco da Carrara, signore di Padoa, della vita sua, et massime per li casi occorsi due volte, deliberò di assicurarsi al più che potesse; et fecce pensiero di fare un castello forte nella città di Padoa, et avuto consiglio da un valente ingegnere, nominato maestro Nicolò della Bellanda, e mostratigli più luoghi della città, ove si dovesse fare, che stesse meglio, alla fine deliberarono di farlo a S. Tommaso, et a S. Agostino, ove erano e sono le torri del perfido messer’ Eccelino da Romano, come in luogo più forte della città. E così gli dette principio nel giorno e millesimo scritto, che fu alli 9 di maggio 1375 [leggi 1374]. Il quale castello fu fatto de’ beni de i cittadini di Padoa, perché così volle il signore; e secondo la condizione e qualità degli uomini erano tassati i pagamenti: cosa non solita, e molto molesta a tutta la città”. Anche se Andrea Gatari, nato all’incirca all’epoca della costruzione del castello carrarese, non poteva far conto su suoi ricordi diretti, tuttavia questa testimonianza non dovrebbe essere casuale, vista anche la tradizione successiva di denominare “Zilie’ le due torri, dal nome dell’architetto del carcere ezzeliniano. Sarebbe, dunque, da attribuire ad Ezzelino anche la costruzione di una seconda torre, che non può essere che quella sul lato orientale, di guardia alla porta verso la città, poiché quella torre, ancor oggi superstite, contiene decorazioni d’epoca carrarese ed era quindi quella esistente al tempo dei Gatari. In attesa che indagini dirette sulla struttura materiale della torre confermino o smentiscano le cronache scritte più attendibili, possiamo continuare a supporre che l’edificazione del castello a partire dal 1374 sia avvenuta su resti precedenti, tali comunque da far considerare il luogo ancora “il più forte della città”.
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